Quando ho deciso di iscrivermi al protocollo MBSR, sapevo che la mindfulness (così come viene insegnata nell’MBSR) era nata in origine  per migliorare la qualità di vita delle persone con dolori cronici. A questa informazione, tuttavia, non ho fatto caso più di tanto. Il dolore fisico non è mai stato un problema, lo sopporto bene… Insomma, abbastanza bene. In ogni caso, per fortuna non so che cosa voglia dire convivere con una malattia invalidante.

Senonché… La scorsa primavera ho avuto un episodio di stomatite. E poi un altro. E un altro ancora. Alla fine ho perso il conto. Certo, nessuno è mai morto per una stomatite né la si può definire una malattia invalidante. In compenso, però, può essere un’esperienza molto, molto dolorosa. Ricordo in particolare un mattino in cui anche solo bere un frullato è stato atroce.

Beh, quel famoso mattino, arrivata in Semplicemente Spazio, ho scoperto che uno degli esercizi in programma era mangiare consapevolmente. Panico. Dove mi avrebbe portato mangiare con presenza mentale se già farlo con la testa rigorosamente sotto la sabbia faceva un male cane? Nel vano tentativo di sfuggire al dolore avevo infatti trasformato i pasti in una sorta di momento mindless, il momento principe in cui non-esserci. Se dovessi fare un paragone, direi che era come tentare di correre senza appoggiare i piedi per terra (inutile dire che non mi ha portato da nessuna parte, azzerando per giunta tutto il resto).

Non posso dire di non avere esitato, ma a quelle alture non avevo più niente da perdere. E così, alla fine, ho scelto di mangiare con consapevolezza. A distanza di pochi mesi non so dire se mi abbia fatto più o meno male, o se il dolore sia rimasto uguale (probabilmente sono successe tutte e tre le cose in momenti diversi). Quel che so con certezza è che tutto il resto ha smesso di essere uno zero: in mezzo al dolore mi arrivava dell’altro – schegge di sapore e, con il sapore, il piacere. All’improvviso ho sentito che, per quanto fosse sgradevole e dolorosa, potevo stare con la mia stomatite senza per questo morirne e, anzi, che potevo godermi quel che c’era da godersi – il cibo. E niente, per me è stata una rivelazione.

Se ora mi guardo indietro, vedo che è successa più o meno la stessa cosa anche sul piano non fisico, solo in modo più sottile. Quando mi ritrovo a rimuginare, saltando da una costruzione mentale all’altra senza via d’uscita, tento di ancorarmi al respiro. «Inspiro, espiro. Inspiro e sono consapevole di inspirare, espiro e sono consapevole di espirare…». Nel momento in cui lo faccio, alzo gli occhi da terra e (quasi) immancabilmente vedo qualcosa – a volte anche «solo» un taglio di luce che non opprime ma eleva. (E non è che quel qualcosa prima non ci fosse, semplicemente io non lo vedevo.) Può sembrare poco, ma in realtà è tantissimo. E, soprattutto, interrompe un vortice di pensieri negativi che non sono nemmeno la realtà. Quel poco basta per fare spazio ad altro.

A questo proposito Brené Brown dice una cosa che sento molto vera, e cioè che non possiamo escludere quello che ci fa star male senza compromettere la nostra capacità di sentire quello che ci fa star bene («numbing vulnerability is especially debilitating because it doesn’t just deaden the pain of our difficult experiences; numbing vulnerability also dulls our experience of love, joy, belonging, creativity, and empathy. We can’t selectively numb emotions. Numb the dark and you numb the light»*). Ecco, la mindfulness per me è un modo per dis-anestetizzarmi e per sentire quello che c’è, tutto quello che c’è.

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* Brené Brown, Daring Greatly: How the Courage to Be Vulnerable Transforms the Way We Live, Love, Parent, and Lead, Portfolio Penguin, 2013, Kindle Edition.