Meditazione sul respiro a partire da 24.40 (sì, lo so: discorso di lunghezza inaudita, si vede che mi siete mancati)
Cercare la strada
Gli anni 90, Deanna e lo yoga in palestra
Mi sono avvicinata per la prima volta alla meditazione, credo, a 17 anni. Era il 1991 e praticavo yoga, nella palestra vicino a casa, con una certa Deanna. Credo che fosse considerata, nel paese dove sono cresciuta, una persona un po’ strana perchè aveva avuto esperienze diverse dalla maggior parte degli abitanti. Si diceva che fosse stata in India per tanto tempo, alcuni lo mormoravano come fosse un segreto da non dire ad alta voce, io trovavo questa informazione affascinante e mi piaceva praticare con lei.
Deanna era pacata, gentile, sorridente. Una volta registrò il rilassamento che guidava alla fine della lezione, e me lo regalò. Ho tenuto l’audiocassetta per anni, ascoltandola nei momenti difficili e non solo. Ora che ci penso, era una sorta di body-scan ma, ancora, non conoscevo questa parola.
Londra e le prime esperienze di meditazione buddhista
A 26 anni, a Londra, ho ripreso a cercare. Ho frequentato, per un periodo, le lezioni di una giovane monaca presso un centro di Buddhismo Mahayana. Non ricordo il suo nome, ho purtroppo da anni un vero e proprio problema nel ricordare nomi propri, di persone, di film, di luoghi, che talvolta mi mette molto in imbarazzo. Ma la porto nel mio cuore con gratitudine.
Ricordo che faceva un discorso, conduceva una breve meditazione, parlava di cambiamento, respiro, onde… Non capivo credo nulla, o molto poco, ma sentivo che c’era qualcosa di buono nelle sue parole, e tornavo a casa ogni volta in uno stato a cavallo tra l’entusiastico e il lenito, che lasciava un po’ perplesse le persone che vivevano con me.
Però io sentivo che era proprio così, che accadeva qualcosa, in questi incontri, che era balsamo per la mia inquietudine. Se mi avessere chiesto gli ingredienti del balsamo, e come funzionava esattamente, non avrei saputo dirlo. Forse, lo dico a posteriori, questi incontri mi trasmettevano la sensazione di avere un mio posto nel mondo. Per me, che per tanto tempo mi sono sentita fuori luogo e fuori posto, non era cosa da poco.
Decisioni apparentemente insensate
A 29 anni, ho fatto una scelta apparentemente avventata. O tale almeno sembrava ad alcune persone a me vicine, incluso mio padre che era molto preoccupato per la mia sicurezza personale e che, testuali parole: “Fosse per me piuttosto che farti partire ti legherei al muro”.
Il muro non ha tenuto, ed io mi sono presa un anno sabbatico e sono andata in Asia, con uno zaino in spalla e un budget di pochi dollari al giorno. Ricordo la prima notte a Nuova Dehli, a guardare il ventilatore a pale che giravata sul letto, temendo che, da un momento all’altro, potesse cadermi in testa – era, oggettivamente, attaccatto al soffitto in modo quantomeno creativo.
In India ho cercato tanto. Ho incontrato persone che, dopo poco che le conoscevo, non mi ispiravano affatto fiducia o mi lasciavano un po’ perplessa. E ho anche stretto amicizie di viaggio preziose, fratellanze itineranti con esseri umani solidi, di buon senso, forse più in equilibrio della me di allora.
Cadere
Il trauma del mio primo ritiro di meditazione
È stato in India, a Dharamsala, attuale sede del governo tibetano, che ho deciso di fare il mio primo ritiro di meditazione.
Doveva durare dieci giorni, e lo ricordo come un’esperienza scioccante. Era silenzioso, con tantissime ore al giorno di meditazione. Condotto da due insegnanti, un uomo e una donna che parlavano a stento, affidando la trasmissione del metodo ad alcuni video che venivano proiettati la sera. Dopo poco tempo, mi sono sentita come se stessi letteralmente impazzendo. Non avevo mai visto così da vicino la mia mente all’opera, e notare quanto poco riuscissi a stare con le sensazioni del mio respiro (ma che dico starci: sentirle!) e quanto fossi letteralmente travolta da ricordi e desideri mi spaventava moltissimo.
Ho chiesto aiuto. Gli insegnanti hanno parlato dicendomi che il metodo insegnato nel ritiro era il migliore di tutti, che restare lì era necessario sia per la mia professione, sia per la mia autostima. Andare via, secondo loro, sarebbe stato un brutto segno. Se non fossi rimasta, sempre secondo loro, avrei manifestato al mondo la mia incapacità di fare i conti con me stessa. Sarebbe stato una vero e proprio fallimento, un segno di debolezza che mi avrebbe fatta sentire per sempre inadeguata.
Dopo nove giorni, e tanto tormento, ho comunque scelto di andarmene. Ero arrabbiata, spaventata e molto scossa. Per tanto tempo, pensando a questa esperienza, mi sono detta: “Io, meditare? Mai più!”.
Rialzarsi e portare il buono con sè
Ho viaggiato ancora per mesi, continuando con la pratica dello yoga che ho poi portato avanti per anni, e facendo anche altro. Ho insegnato l’inglese a Luang Prabang, in Laos. Mi sono data alla vita da spiaggia sulle spiagge di Ko Phangan, in Tailandia, sentendomi molto vicina al film “The Beach” di Danny Boyle. Ho disegnato e prodotto un campionario di abbigliamento da spiaggia, a Bali.
Sono tornata in Italia con l’idea che, in fondo, la spiritualità può trovarsi ovunque come da nessuna parte, in Asia come a Milano o a Tokyo o New York, e che il punto è sapere come guardarsi dentro. Mi fa sorridere, ora che lo scrivo, pensare di essere dovuta andare dall’altra parte del mondo per capirlo, ma è andata proprio così.
E ammetto che del ritiro di meditazione a Dharamsala mi era comunque rimasto del buono. Non ho mai più dimenticato la parola aniccia, che in lingua Pali significa impermanenza. Ricordare aniccia e, dunque, che tutto cambia, mi ha salvata dalla disperazione quando, in Rajasthan, mi sono ritrovata a letto, da sola, con 40 di febbre e le convulsioni di un avvelenamente alimentare memorabile. E mi ha anche fatto apprezzare di più i momenti in cui stavo bene, che ho iniziato a dare meno per scontati.
Trovare la strada
A Goa, una collega mi disse
Ho sentito per la prima volta parlare di mindfulness a Goa, credo fosse il 2006, da Eva, una collega svedese che conduceva il ritiro di yoga al quale partecipavo. Fu lei a parlarmi di Jon Kabat-Zinn. Tornata a casa cercai subito le informazioni del Center for Mindfulness della University of Massachussets Medical School e, appena lessi i requisiti per partecipare al training, pensai: “Sembra che qualcuno abbia confezionato un vestito su misura per me”.
Non partii subito, all’epoca mia madre era ancora viva, ma iniziava ad essere molto malata, e non volevo allontanarmi troppo. E poi, restava la mia paura di meditare dopo l’esperienza a Dharamsala, e non era esattamente un dettaglio. Mi sono fatta coraggio e mi sono detta che potevo riprovare, che tutto cambia e anch’io ero diversa. Anicca, appunto.
Di nuovo in ritiro di meditazione
Ricordo il mio primo ritiro di meditazione con Corrado Pensa. Mi è sembrato come se qualcuno avesse magicamente squarciato il velo che avevo di fronte agli occhi, senza saperlo, da anni. O abbassato il volume della radio che avevo in testa, un commentatore di esperienze e situazioni che mi faceva compagnia da sempre ma io proprio non me n’ero accorta. Pensavo facesse parte di me, non sapevo di poterlo osservare prendendo un po’ di distanza dentro di me.
Ho ripreso a meditare anche a casa e ho iniziato, quando ho potuto, il training per diventare insegnante presso il Center for Mindfulness. E lì, mi sono letteralmente innamorata della mindfulness.
La mia morale della storia
A volte le strade sono tortuose e molto faticose. Ci sono false partenze, intoppi, cadute. Si prendono fischi per fiaschi e anche grandi facciate.
Quando succede, potremmo pensare di essere sbagliati, di non capire niente, che non ci sono soluzioni o vie d’uscita, ma non è così. Si tratta solo di avere pazienza e continuare a camminare, portando l’esperienza con noi.