La pazienza implica il desiderio di essere vivi
“Quando finirà tutto questo?”. Non lo so. Nessuno di noi può saperlo. Ma so, e di questo sono certa, che in questo momento ci serve pazienza. Tanta. E pensandoci mi vengono in mente le parole di Pema Chödrön, che nel suo libro “Start Where You Are” (“Parti da dove sei”, pubblicato in italiano da Il Punto d’Incontro) ricorda che:
“La pazienza vuol dire permettere alle cose di svolgersi con il loro tempo, piuttosto che assaltarle con la nostra risposta abituale rispetto a ciò che è piacevole o spiacevole”
E ancora:
“La pazienza non s’impara quando tutto è sicuro, non s’impara quanto tutto è in armonia e va bene (…) La pazienza implica il desiderio di essere vivi piuttosto che quello di voler armonizzare tutto”.
Per praticare la pazienza dobbiamo conoscere l’impazienza
Abbiamo tutti un po’ di pazienza, altrimenti non useremmo l’espressione: “Perdere la pazienza”. Ma poi c’è un limite oltre al quale la perdiamo. Dove la rabbia, o l’ansia, prendono il sopravvento su di noi. Quando questo accade, non dobbiamo sentirci in colpa. Reagiamo così perché siamo umani. Essere impazienti, perdere le staffe, fa parte di noi tanto quanto la pazienza.
È tuttavia una buona idea conoscere bene l’impazienza. Per farlo, potremmo osservare cosa succede quando siamo impazienti. Notare per esempio come l’impazienza della mente si riverbera nel corpo, e di solito non è un insieme di sensazioni particolarmente piacevoli. Ma notare anche come l’impazienza influenza l’ambiente circostante, le nostre relazioni, la nostra capacità di dedicarci ad un compito importante. Potremmo ricordare l’ultima volta in cui siamo stati impazienti, e abbiamo agito l’impazienza con parole e azioni. Che cosa è successo dopo? Quali sono state le conseguenze della nostra impazienza?
Potremmo anche osservare l’impazienza negli altri, e l’effetto che ci fa. E guardare con attenzione, affinchè possano ispirarci, anche le persone pazienti, e come l’ambiente intorno a loro, e le persone, si placano un po’ in loro presenza.
È importante, per non buttarci giù, ricordarci anche delle volte in cui noi siamo stati pazienti, e chiederci: Come è stato quando ho potuto praticare la pazienza? Quando sono riuscito a rimanere calmo anche in situazioni difficili, o con persone difficili?
È altamente probabile, certamente auspicabile, che se osserviamo tutto questo arriveremo alla conclusione che è meglio essere pazienti piuttosto che non esserlo.
La pazienza è come un paio di scarpe
Le cose sono così come sono in questo momento. È una frase che, se hai esplorato un po’ la mindfulness e il pensiero buddhista, avrai sentito ripetere diverse volte. Una fila di parole che distillano saggezza ogni volta che ci ricordiamo non solo di pronunciarle, ma che è davvero così.
Il suo senso non è una rinuncia all’attivismo, un invito alla passività e al farsi andare bene tutto.
Ma è piuttosto un invito a ricordarci ciò che è ovvio e che così spesso tendiamo a dimenticare: pensare di liberarci di tutte le persone difficili e di tutte le situazioni difficili così da poter vivere sempre al riparo da irritazioni e problemi, non è realistico.
Shantideva diceva che è folle andare in giro per il mondo a piedi nudi aspettandoci che i nostri piedi non siano mai feriti. Non puoi aspettarti di coprire la terra con il cuoio. La soluzione è poteggerli, indossare un paio di scarpe.
La pazienza è il nostro paio di scarpe. Se le indossiamo, se coltiviamo la pazienza, possiamo incontrare tante persone e situazioni senza esserne così rapidamente feriti, o sconvolti. Senza che la pace della nostra mente venga troppo turbata.
Il verbo restare non è all’infinito
Ritorno alla frase iniziale di Pema Chödrön:
“La pazienza vuol dire permettere alle cose di svolgersi con il loro tempo”.
Tutto cambia. Nel bene, nel male, a seconda dei punti di vista. Nulla resta per sempre. Può fare paura, ma è anche consolante. Come ricorda Monica, 10 anni, con una frammento della sua poesia citato da Chandra Candiani nel suo libro “Il Silenzio è cosa viva” (Einaudi):
Quello che resta
(…)
Abbiamo passato momenti duri
ma poi
è uscito il sole
a darci felicità.
Noi siamo colline
E, piano piano,
ci abbassiamo.
Maestra,
il verbo restare non è all’infinito.
Buona pratica, Caro